VI

In una considerazione della critica quale operazione interamente individuale ed astorica (e al fondo c’è pure un legame fra una simile considerazione della critica e una concezione della poesia come astorica e unicamente indagabile nel testo e nello stile) sarebbe anche inutile lusso di informazione inessenziale la storia della critica. Che invece, se rettamente intesa e utilizzata, ben rientra fra gli strumenti e gli elementi storicistici di una interpretazione storico-critica tesa a rifiutare ogni accostamento impressionistico e non perciò a mortificare l’iniziativa e la freschezza personale di un critico, tanto piú avvalorate e rese sicure della loro originalità quanto piú esercitate e provvedute di strumenti e disposizioni euristiche, di consapevolezza della complessità e serietà culturale dell’attività critica.

Certo nello sviluppo piú recente di tale studio e nella sua eccessiva proliferazione si può avvertire il pericolo di esercitazioni scolastiche fine a se stesse[1] o quello piú grave di una riduzione della critica a sopralluogo frettoloso e a conclusione giudiziaria per scarto e cernita solo delle posizioni critiche precedenti, quando poi non si tratti invece di una sovrapposizione di tesi precostituite e partigiane che falsano la realtà e la fecondità della storia della critica nella pura preparazione di un messianico e tendenzioso enfin vint.

Ma l’impiego di questo strumento storico-critico rivela la sua validità non solo in quanto risponde ad una esigenza di piena conoscenza del lavoro critico precedente – con l’eliminazione di inutili «nuove scoperte dell’America», e con l’offerta stimolante di spunti critici spesso annidati in giudizi minori o meno noti, a volte sommersi dalle onde piú potenti del gusto da cui essi discordavano –, ma in quanto situa la nuova iniziativa interpretativa entro una prospettiva problematica già aperta, entro una storia critica già in atto.

E cosí rafforza nel critico la responsabilità del suo lavoro come collaborazione all’ulteriore affermazione del valore artistico e della sua vita attuale nella continuità della sua vita critica precedente, e come opposizione ad ogni forma di accostamento impressionistico e degustativo dell’opera d’arte quale oggetto immobile e astorico sia nella sua nascita sia nella prosecuzione della sua vita e nei modi con cui successivamente l’opera d’arte è stata intesa e valutata, e ha provocato tensione poetica e critica, ha suscitato discussioni e problemi di gusto, di ideologie e di cultura[2].

Su di un piano generale l’esercizio della storia della critica rinsalda dunque nel critico la sua coscienza storicistica e un senso robusto della storicità della critica ben lontano dalla esasperante impressione della trottola del gusto e dalla illusione della formula insuperabile, in quanto mostra le ragioni profonde dello svolgimento e cambiamento dei giudizi, la loro non casualità e il loro fecondo margine di approssimazione in assoluto di una storia che non conosce mai l’ultima parola, pena la morte dogmatica e scolastica[3].

E insieme riconduce – attraverso l’esperienza della vita di un problema critico che ha implicato motivazioni culturali, ideologiche e sin politiche delle diverse posizioni critiche[4] – a tanto piú sentire i rapporti che legano la critica e la storiografia letteraria a tutta la cultura e la storia, e i rapporti che a queste legano la stessa attività artistica che nel suo corrispettivo critico tali problemi ha suscitato e richiesto: sicché la storia della critica si mostra parte effettiva della storia della cultura pur con i suoi problemi specifici e tecnici.

D’altra parte l’esperienza del particolare problema di un autore già ne approfondisce (attraverso i problemi che ha promosso e che sono in rapporto con i suoi problemi e la loro forza di irradiazione) una piú forte conoscenza e ne avvia una interpretazione che media (come in ogni operazione storica) le proprie esigenze ed istanze personali e storiche con quelle che in altre epoche l’opera d’arte ha promosso: in una trama di discussione e di esperienza che attenua la possibile prevaricazione del presente sull’alterità del passato e meglio dispone a far valere la propria interpretazione e la sua novità (non a mortificarle e causalizzarle) nella piena consapevolezza del problema trattato, del suo svolgimento e del significato che in questo assume la sua nuova interpretazione[5].

Strumento essenzialmente storicistico, la storia della critica rifluisce e si coordina in un sistema storico-critico che nella poetica (con le sue implicazioni piú complesse) trova anche un nuovo legame fra critica e arte e rifiuta sia la figura del critico come artifex additus artifici sia la parziale verità del philosophus additus artifici, e piú punta su di un critico storiografo che, vivo nella poetica del suo tempo e in una propria poetica, storicamente ricostruisce le poetiche del passato e la tensione fra poetica e poesia in tutta la sua concretezza storica e personale e cosí facendo sostiene e assicura la sua interpretazione critica, la sua valutazione delle opere e delle personalità poetiche.


1 Si ricordino in proposito certe reazioni dell’ultimo Russo («Belfagor», 1, 1960), pur fautore strenuo della storia del problema critico necessaria ad introdurre le nuove posizioni personali, su di una via già aperta dal De Sanctis e dal Croce. Sulla storia della critica e i suoi problemi si vedano le mie considerazioni piú ampie nella introduzione ai Classici italiani nella storia della critica, I, La Nuova Italia, Firenze 1954 (nuova ed., ivi 1960), opera che volle rispondere tempestivamente ad un’esigenza particolarmente accentuatasi negli anni piú recenti. Personalmente ho partecipato a questo tipo di studio con la Storia della critica ariostesca, Lucentia, Lucca, 1951, con l’introduzione al saggio leopardiano del De Sanctis (Laterza, Bari, 1953, ora in Carducci e altri saggi cit.), con il saggio sulla critica foscoliana (nel II vol. dei Classici italiani nella storia della critica, La Nuova Italia, Firenze, 1955, 19704, e nel volume piú ampio Foscolo e la critica, ivi 1957, 19726).

2 Sarà chiaro, ad esempio, che la stessa arte ha promosso la scienza (il caso dell’arte figurativa fiorentina quattrocentesca) e che i Sepolcri hanno promosso un costume cimiteriale, una religione laica delle tombe di grande importanza nella vita civile ottocentesca. E il fatto che Garibaldi, uomo di media e scarsa cultura, avesse come livre de chevet i Sepolcri è spiraglio che illumina fortemente il costume di tanti uomini d’azione risorgimentali e il livello che distingue tanti attivisti di quell’epoca da quello di origine dannunziana e futurista degli squadristi fascisti. Esempi minimi di un’azione della poesia fuori del campo letterario e del dialogo dei poeti.

3 È veramente curioso che non solo rappresentanti di un gusto sostanzialmente astorico e senza coscienza metodologica (si veda la fatua recensione di A. Fongaro ai miei Classici italiani nella storia della critica, «Revue de littérarure comparée», 1960), ma studiosi appartenenti, bene o male, alla tradizione storicistica italiana paragonino ancora la storia della critica ad una specie di giuoco della quintana, ad un caotico succedersi di esperienze e assaggi del tutto individuali e senza nesso fra di loro (si veda la recensione, alla citata opera, di G. De Blasi, «Giornale storico della letteratura italiana», 2, 1957).

4 Si pensi almeno, come caso vistosissimo, e da me evidenziato nel cit. Foscolo e la critica, alla polemica sul Foscolo da parte dei cattolici e spirirualisti e dei mazziniani: quella polemica è soprattutto a base ideologica ed etico-politica e costituisce non solo un nodo della critica foscoliana, ma un interessante capitolo della storia ideologica e politica del Risorgimento. O si pensi alla componente ideologica e politica del giudizio del Bettinelli sull’Alfieri (v. il mio omonimo scritto in «La Rassegna della letteratura italiana», 2, 1957, ora in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit.).

5 Naturalmente (si pensi alle polemiche tassesche e ai commenti trecenteschi della Commedia) la storia della critica deve operare sempre col concorso della comprensione della poetica di un’epoca e dei suoi singoli rappresentanti, evitando il loro schiacciamento o innalza mento solo alla luce di fermenti preestetici di una particolare estetica e la richiesta di un tipo di giudizi che sono di altra epoca e di altra maturità critica. Chi legge gli interventi del Salviati sulla Gerusalemme o il commento di Benvenuto, con l’adeguata preparazione e direzione storico-critica, ne ricava elementi importanti per la poetica del tempo e concreti stimoli di giudizio e di valutazione vivi anche per noi. Ma solo, ripeto, attraverso la comunicazione della coscienza e conoscenza della poetica con tutto ciò che essa implica. Cosí invece troppo tesa alle idee critiche e ai precorrimenti estetici o di teoria letteraria (e troppo poco attenta al valore che prendono le figure dei critici nei loro precisi contesti storici e in relazione alla poetica, e al suo muoversi con tutta la sua ricchezza culturale e storica) mi sembra la recente e pur meritoria Storia della critica moderna di R. Wellek (ora interamente apparsa in traduzione italiana, in quattro volumi, Bologna 1958-1969) che perciò risulta tanto ingiusta con la critica settecentesca italiana, cosí diversamente ricca di problemi e di giudizi, se intesa nelle sue particolari condizioni e non in un puro confronto di priorità di idee critiche in campo europeo. Baretti può aver ripreso stimoli e idee e magari brani del Johnson, ma ciò non toglie la forza della sua critica, la novità preromantica del suo Discours sur Shakespeare et monsieur de Voltaire, e Gravina non può ridursi a un semplice ripetitore cartesiano.